Il tormentato e confusionario rapporto del governo Meloni e del suo guardasigilli Carlo Nordio con l’idea di uno Stato di diritto ha conosciuto un nuovo inaspettato capitolo. Nell’ultimo Consiglio dei ministri la presidente Giorgia Meloni si è abbandonata a un altro attacco contro la magistratura, prendendo di mira stavolta una sentenza della prima sezione penale della Cassazione (34895/22) che aveva accolto il ricorso di due imputati condannati per un omicidio aggravato dal ricorso al metodo mafioso (art.416 bis del codice penale).
A mezzo del solito dispaccio alle agenzie, subito ripreso dalla stampa ignara di cose giuridiche, la presidente ha proclamato che la sentenza in questione, ohibò, è roba pericolosissima in quanto «ha posto seriamente in dubbio» (chi lo avrebbe immaginato) nientemeno che il concetto giuridico di «criminalità organizzata».
Secondo Meloni, la Cassazione avrebbe infatti affermato – testualmente – che possono «farsi rientrare nella nozione di delitti di “criminalità organizzata” solo fattispecie criminose associative, comuni e non», con la conseguenza che devono escludersi dal regime per essi previsti i reati di per sé non associativi, come un omicidio. Detta così sembra invero una cosa alquanto banale, un aforisma degno di monsieur di Lapalisse (quello che un attimo primo di morire era ancora vivo). Cosa potrebbe essere infatti un «delitto di criminalità organizzata» se non un crimine perpetrato e appoggiato da un gruppo criminale?
Per essere precisi, dicono gli ermellini, un gruppo criminale è «una stabile organizzazione programmaticamente ispirata alla commissione di più reati» come lo sono notoriamente la mafia, la camorra eccetera.
Altrettanto prevedibilmente e banalmente (sia detto senza offesa) la sentenza in oggetto, con ampie citazioni di precedenti anche a livello di sezioni unite, ha osservato che un singolo fatto criminoso può richiamare modalità e usi tipici di gruppi criminali (poniamo un incaprettamento della vittima in un omicidio o l’uso di minacce di stampo mafioso in un’estorsione). Ma ciò non significa che automaticamente l’atto sia espressione volontaria di una banda criminale e non di un singolo soggetto per finalità proprie, specie se – come nel caso in esame – la procura interessata non aveva contestato alcun tipo di reato associativo.
In poche parole, secondo la Cassazione, perché un delitto si consideri come «fatto di criminalità organizzata» si deve contestare all’autore il reato di appartenenza a un gruppo mafioso, il famoso articolo 416 bis, o di narcotrafficanti, o di terroristi.
Aggiungiamo che ciò è previsto espressamente dal codice penale che distingue come ipotesi autonome i reati associativi specificamente delineati (mafia, narcotraffico, terrorismo) dall’aggravante dell’uso di modalità tipiche delle organizzazioni criminali (lo sfruttamento della forza di intimidazione derivante dalla fama e dalla pericolosità della banda criminale). E infatti si usa contestare sia il reato associativo sia il singolo reato attuativo degli scopi sociali aggravato dalle modalità mafiose: perché sono reati diversi.
Al governo Meloni non sta bene che la Cassazione faccia il suo lavoro istituzionale di interpretare le norme dei codici. E minaccia una cosa di estrema gravità, cioè di emettere una legge con la quale, sostituendosi ai giudici, interpreta la norma sostenendo l’indifendibile assunto che un reato sia definito associativo senza la contestazione dello specifico delitto.
Attenzione, non si tratta di un’astrusa disputa tra giuristi perditempo. Il problema è antico e dibattuto e chiama in causa principi costituzionali fondamentali come quello della responsabilità personale del cittadino per un reato commesso da altri, che può essere delineata solo se vi sia un contributo diretto e consapevole del concorrente non autore.
La Cassazione ha finito per sposare in materia di reati associativi un indirizzo garantista in base a cui, per esempio, «non può essere riferito alla c.d. cupola di un’organizzazione mafiosa ogni “delitto eccellente”, presumendosi sempre sussistente il consenso esplicito o tacito alla realizzazione in ragione della sua cruciale rilevanza strategica ma solo quello in ordine al quale ci sia stata:
a) una preventiva conoscenza delle articolazioni concrete del progetto delittuoso e delle connesse modalità esecutive;
b) una conseguente manifestazione di approvazione, ovvero una mancanza di manifesto dissenso»
Da qui di dovrebbe già comprendere la grossolanità imbarazzante dell’editto anti-Cassazione della Meloni (in continuità perfetta a tutte le altre polemiche giudiziarie scatenate da un governo di incerta cultura giuridica, duole dirlo) ma c’è di più, ahimè. Una stampa libera e indipendente dovrebbe chiedersi come mai la polemica venga scatenata un anno dopo la pubblicazione delle motivazioni della sentenza demonizzata depositate a settembre del 2022.
La spiegazione è nell’oggetto del provvedimento contestato se solo si prendesse la briga di leggerlo, come ha fatto Linkiesta, che ha un tema ben preciso e scottante per un governo ossessionato dal controllo: l’estensione e il rispetto del principio di legalità sull’uso delle intercettazioni.
Il ricorso aveva a oggetto, infatti, l’utilizzabilità di captazioni telefoniche e ambientali disposte con le modalità agevolate previste, appunto per i reati di criminalità organizzata. In questi casi la legge consente un uso estremamente invasivo delle intercettazioni, in particolare dei famigerati trojan che possono essere introdotti e registrare ventiquattrore su ventiquattro anche le conversazioni e le attività che si svolgono dentro le private abitazioni senza necessità di dimostrare che in esse si svolgano attività illecite. Questo limite indica il punto di equilibrio posto dal legislatore tra esigenze di prevenzione criminale e tutela delle libertà individuali: in casa di un privato cittadino e nella sua vita si entra se vi è prova che si stiano commettendo reati di estrema gravità.
La Cassazione con la sentenza oggetto dello sdegno governativo ha statuito che per superare l’unico limite all’uso incontrollato di trojan e intercettazioni di vario tipo bisogna che sia contestato uno specifico reato associativo e non un semplice succedaneo, punto.
Già vien voglia di chiedersi cosa ci sia di scandaloso in tale decisione ma non basta. Come fa un governo che per bocca del suo guardasigilli, ogni tre per due, invoca la riforma (restrittiva e pseudo-garantista) delle intercettazioni? E addirittura aspira a una modifica del concorso esterno nei reati di mafia, scagliandosi senza cognizione di causa contro una sentenza che applica alle intercettazioni gli stessi principi di legalità e tassatività invocati per le proprie riforme. E per far ciò non esita a minacciare di sovrapporsi alla magistratura come interprete delle proprie leggi, violando quel principio di separazione dei poteri che la stessa politica invoca a tutela della propria autonomia minacciata dalla magistratura.
Esiste un solo grave precedente alla minaccia di emettere una legge ad hoc di interpretazione autentica: quello nel ’92 all’indomani di Capaci con cui Giulio Andreotti e Claudio Martelli disapplicarono una sentenza della Cassazione (presidente Corrado Carnevale processato e assolto per concorso esterno) per evitare la scarcerazione di alcuni imputati di mafia.
La verità è che ancora una volta emerge il conflitto di interessi culturali di questo governo e della sua politica giudiziaria. Dei diritti non interessa nulla se non nella misura in cui si tratti di tutelare i suoi fedeli, vedasi Andrea Delmastro e suoi esponenti indagati per reati contro la pubblica amministrazione. I galantuomini di potere. Per gli altri forca, sapone e intercettazioni.
Articolo proveniente da Linkiesta