Cercare di raccontare un’icona è sempre rischioso. È facile cadere nell’aneddotica, nelle curiosità, o peggio nella trappola delle definizioni che finiscono per trasmettere un’immagine bidimensionale o statica di una persona. Questo vale ancora di più se si parla di Jane Birkin, nata il 14 dicembre del 1946 e scomparsa due giorni fa a Parigi, che nella sua vita è stata centomila cose e, come insegna Pirandello, allo stesso tempo nessuna di esse: inafferrabile e multiforme, irrequieta e luminosa, Birkin rimane impossibile da incasellare – forse il segreto del suo fascino strepitoso – come un cumulonembo in estate.
La cronaca ce la consegna nata nel quartiere stiloso di Marylebone, a Londra, da una famiglia borghese – padre militare, madre attrice – e diventata giovanissima modella dalle gambe chilometriche perfette per le nuove minigonne di Mary Quant. Idolo hippy dai pantaloni a zampa di elefante, miniabiti trasparenti a crochet e cestino di paglia portoghese sottobraccio, acquistato a Portobello e indossato ovunque, dal supermercato al red carpet – e detestato dal terzo marito Jacques Doillon al punto da schiacciargliela con l’automobile – ma allo stesso tempo adorata da Hermes che nel 1984 le dedicò il modello di bag che prende il suo nome, diventando uno dei simboli del lusso, dopo che l’ex presidente e direttore artistico della maison la vide in aeroporto rovesciare a terra il contenuto della borsa per cercare i documenti, decidendo così di aggiungere delle ragionevoli tasche all’accessorio.
Appena diciannovenne sposa il compositore John Barry, autore delle colonne sonore dei film di James Bond, con cui ha la prima figlia, Kate, fotografa, nata nel 1967 e morta suicida nel 2013; nel frattempo affianca alla carriera di modella quella di attrice, intrecciando sensualità e dolcezza, scandalo e stile, costanti inseparabili proprio come l’inflessione inglese del suo francese praticamente perfetto, recitando per registi di culto come Michelangelo Antonioni, nel cui film “Blow-Up” interpreta una piccola parte che però la rende famosa, per via delle scene di nudo giocoso che le apriranno la strada per un curriculum da simbolo di sessualità libera e disinibita. Ruolo confermato con l’incontro, nel 1968 con il cantante e musicista Serge Gainsbourg, più grande di lei di diciotto anni, sul set del film francese “Slogan”: con lui visse una storia appassionata e difficile (per via dell’alcolismo e dei tradimenti di lui) durata tredici anni, da cui è nata nel 1971 Charlotte, oggi anche lei attrice.
Con lui registrò la celeberrima hit “Je t’aime… moi non plus”, scritta dallo chansonnier in realtà per Brigitte Bardot all’epoca della loro relazione e poi reinterpretata con la nuova fiamma, vietata da Rai e scomunicata dal Vaticano per via dei sospiri di Birkin che simulano un orgasmo, il cui titolo è un surreale gioco di parole che prende spunto da una frase di Dalì “Picasso est espagnol, moi aussi. Picasso est un génie, moi aussi. Picasso est communiste, moi non plus (Picasso è spagnolo, anch’io. Picasso è un genio, anch’io. Picasso è comunista, neanch’io)”. E soprattutto con lui appaga le tante curiosità sessuali che il marito inglese era troppo pudico per sperimentare, arrivando a passeggiare per Pigalle una notte in minigonna e stivali sopra al ginocchio per provare a sentirsi prostituta per una notte – cacciata poi malamente da un gruppo di vere “professioniste”. Dopo aver lasciato il narciso e violento Gainsbourg, si lega al regista Jacques Doillon, con cui ebbe nel 1982 la sua terza figlia, Lou, straordinariamente simile a lei, a sua volta modella, attrice e cantante.
Eppure rimase Serge il suo grande amore, fantasma presente in ogni sua relazione successiva, al punto che quando morì nel 1991 lei gli sistemò accanto, nella bara, l’adorata scimmietta di pezza Munkey che le aveva fatto compagnia fin da bambina, un feticcio a cui era legatissima al punto da intitolare la propria autobiografia in due volumi “Munkey Diaries”, narrazione della sua vita dal 1957.
Come cantante ha continuato a registrare album variando dal pop al jazz, al folk, collaborando con artisti internazionali come Brian Molko dei Placebo, Manu Chao, Caetano Veloso e anche il nostro Paolo Conte. Attivista impegnata, ha sostenuto diverse cause umanitarie e ambientali, come quella per la liberazione della leader birmana Aung San Suu Kyi; rimase celebre il suo rifiuto della Legion d’Onore nel 1989, motivato dal fatto che secondo lei “solo gli eroi” avrebbero dovuto riceverla.
Nei primi anni duemila cominciano i problemi di salute, con una leucemia strisciante e nel 2021 l’ictus da cui si riprenderà ma che le costerà una lunga pausa dai suoi impegni professionali, fino al malore che le è costato la vita.
Basta questo a spiegare una persona Bastano le azioni, la carriera esuberante e poliedrica di questa donna a dare un perché del suo fascino? Di quel sorriso straordinariamente dolce e di quello sguardo intenso, sempre sospeso tra malinconia e determinazione, tra volontà e accoglienza Forse la vera risposta è nei suoi film: non quelli della sfrontata giovinezza, ma quelli della maturità. Come lo splendido “Daddy Nostalgie” di Bertrand Tavernier, in cui assiste il padre malato nei suoi ultimi giorni; e soprattutto il recente “Jane by Charlotte”, firmato dalla figlia avuta dall’amato Serge, che ha disegnato un ritratto poetico e interrogativo della madre. Da cui emerge un unico tratto incontrovertibile: il coraggio di Birkin di amare senza risparmiarsi.
L’articolo Jane Birkin, una, nessuna, centomila: il coraggio di amare senza risparmiarsi proviene da Il Riformista.