Sono passati quasi 30 anni da quella geniale, ironica invettiva che mise davvero la parola fine alle ideologie del Novecento, più della caduta del Muro e dei Chicago boys. Quel mettere alla berlina destra e sinistra evocando minestrine e reggicalze, mortadelle e karaoke, docce e Marlboro, fu la più clamorosa delle pernacchie nei confronti delle resistenti e rocciose convinzioni, fatte di pregiudizi e luoghi comuni, che animavano l’Italia dell’epoca. Oddio, ho detto dell’epoca E oggi, non siamo più o meno allo stesso punto?
Intendiamoci bene, destra e sinistra non sono categorie di cui ci si può liberare con qualche giravolta tattica. Fanno parte del nostro vissuto, del linguaggio quotidiano, dell’immaginario collettivo. Sono le chiavi di lettura che usiamo per etichettare il prossimo, e di conseguenza per approvare o condannare, creare schieramenti, separare gli amici dai nemici. E per darci così un’identità. Che è la vera ossessione che ci perseguita, nella società fluida. Non riusciamo ad abituarci al mondo libero che noi stessi abbiamo creato, per questo sentiamo il bisogno di incasellarci, di auto collocarci da una parte o dall’altra, dentro zone di conforto largamente posticce.
D’altronde, pensare di fare a meno delle due categorie, inventarne di nuove, non è semplice. Spesso chi tenta di uscire dalle gabbie contrapposte viene bollato come un sognatore astratto o – peggio – come un opportunista, un traditore, un voltagabbana. Le sole possibilità per avviare l’impresa – per chi ne abbia voglia – sono, in ordine crescente di importanza: 1) fottersene delle accuse, quindi procedere con coraggio, perché bisogna nuotare controcorrente; 2) avere molta pazienza, perché raggiungere l’isola che (al momento) non c’è, richiede tempo e fatica; 3) nel frattempo costruire un nuovo pensiero all’altezza delle ambizioni. Che è poi, quest’ultimo, il punto cruciale. Perché solo il pensiero può farci conquistare risultati utili: si tratti della nascita di qualcosa che vada oltre i recinti, con contenuti solidi e innovativi; oppure, comunque, dell’avvio di un dialogo vero, proficuo tra diversi.
Vaste programme, avrebbe detto il generale, e sarà anche il prevedibile riflesso sarcastico di molti, che sfideremo con l’evento del prossimo 4 settembre, promosso dalla Fondazione Ottimisti&Razionali e da Nazione Futura. Due luoghi di riflessione e di elaborazione, network culturalmente differenti che hanno deciso di mettere insieme le forze per ragionare intorno a coppie tematiche di cui non si può negare attualità e rilievo: giustizialismo/garantismo, uomo/natura, globalizzazione/sovranismo, relativismo/valori. E se il nuovo pensiero non arriva, perché le differenze sono troppo sedimentate per essere superate? O perché continuano a riflettere effettivamente posizioni diverse presenti nella società, nel mondo reale? Nessun problema, se resta in campo e cresce il dialogo. E cioè la possibilità, il gusto, la passione del parlarsi per cercare il nucleo di verità nel pensiero dell’altro, per nutrirsi dei punti di vista altrui. Niente di più bello. È quello che cercheremo di fare, evitando di “continuare ad affermare un pensiero e il suo perché, con la scusa di un contrasto che non c’è, se c’è chissà dov’è, se c’è chissà dov’è”. Come diceva, appunto, 30 anni fa quel signore lì, Giorgio Gaber.
L’articolo Quel mettere alla berlina destra e sinistra evocando minestrine e reggicalze fu la più clamorosa delle pernacchie ai luoghi comuni proviene da Il Riformista.