Del potere della femminilità si è detto tanto ultimamente. Spesso, come per la questione ambientale, succede che un argomento venga fagocitato dalla tendenza, dall’impellenza del momento, e che lo si scambi per un tema alla moda. Eppure, per quanto riguarda i marchi, emerge un parossismo: è infatti la moda a fare le mode. E se parliamo di un brand come Nike, che all’inizio del secolo ha lanciato, con la sua saetta, l’idea di dinamismo, velocità e individualismo che tutti ben conosciamo, constatiamo che i tempi cambiano, che le priorità diventano altre, che lo squillo di tromba chiama verso nuovi imperativi, nuove battaglie, nuove conquiste.

Il 5 luglio, a Parigi, Nike ha ospitato Goddess Awakened, una coreografia diretta da Paris Goebel, ballerina e atleta di origini neozelandesi, nata e cresciuta nella periferia di Auckland, ultima di quattro fratelli. Da che si allenava nel garage della zia e nel magazzino di suo padre, ha collaborato con celebrità del calibro di Justin Bieber, Ariana Grande e Rihanna. È sua, ad esempio, la coreografia del videoclip di Sorry, una delle canzoni più popolari di Bieber, che nel 2016 ha raggiunto oltre un miliardo di visualizzazioni.

courtesy of Nike

Quella di Paris Goebel è senz’altro la storia di una donna che ce l’ha fatta. Ma il messaggio che Nike intende passare è collettivo, questa volta: la danza è un inno al movimento, alla coesione, all’armonia che scaturisce da un gruppo di persone che si muove all’unisono. Il titolo della performance, tradotto, sta a significare che la dea è sveglia, si è svegliata, viva e ci dice che la dea greca a cui Nike si ispira, la figura femminile alata, portatrice di forza, di vittoria, di successo, oggi non è più una sola, ma ciascuna di noi, ogni donna del pianeta, la quale, volente o nolente, è chiamata a rispondere di dinamiche che la precedono, che la sovrastano, che la definiscono: il genere e ciò che al genere si accumula, ovvero pregiudizi, processi di secolarizzazione, costumi, abitudini, tentativi di contenerlo, tabù, ingiunzioni, aspettative, spettri.

Che sia ricca, di successo, in carriera oppure no, una donna vive e sperimenta condizioni di marginalità. Esse sono comuni a tutte, stabilite in automatico dal genere di appartenenza, forti tanto più perché ci si adegua senza gli strumenti per comprenderle, isolarle, decostruirle. In assenza di riflessioni, di portavoce, di prese di coscienza che attraversano l’intero corpo sociale, le donne sentiranno sempre di subire oscuramente un’ingiustizia, senza essere in grado di individuare quale. Ecco, in questo senso opera la Centrale Fies, letteralmente un centro di ricerca di pratiche performative contemporanee, con sede all’interno di un’antica centrale idroelettrica di inizio Novecento nell’irreale, illibata provincia dolomitica di Dro.

Hatis Noit , Aura, by Özge Cöne, courtesy of Centrale Fies

Tra le varie attività culturali, propone anche tre giornate dedicate interamente alla questione femminile, denominate Feminist Futures. Ha luogo dal 14 al 16 luglio, dal venerdì sera alla domenica, per consentire a uomini e donne che lavorano di partecipare, compatibilmente agli orari di lavoro. E congedarsi dai mestieri della settimana non per rilassarsi in una località marina, ma per unirsi a un organismo comunitario è esattamente il tipo di azione, anzi, di reazione che si addice a una società in procinto di cambiare una volta per tutte.

I laboratori proposti sono trasversali, mutevoli, dai dibattiti alle installazioni artistiche, dagli incontri con Selma Selman, Florin Flueras,Milla Koistinen, Chiara Bersani, Stina Fors, Thais Di Marco a esibizioni di gruppi musicali di movimenti queer come Hatis Noit, Witch Club Satan, Marina Herlope Rifugio Amore. Tanto per citarne alcuni, Florin Flueras, nell’esposizione Unimages, esplora la politica, la filosofia, la spiritualità, la salute, i media, l’educazione, la letteratura, scardinandone convenzioni e certezze.

Thais Di Marco, Blood Shower, photo by Roberta Segata

Witch Club Satan unisce musica, teatro e politica attraverso la vituperata figura della “strega”, la controparte femminile per eccellenza, un archetipo di cui oggi ci si riappropria con ironia, ma che costò la vita a migliaia di donne, accusate di magia nera dalle istituzioni religiose non appena si ribellavano a subalternità, sottomissione, misticismo. Ispirandosi alle attiviste del W.I.T.C.H. (Women’s International Terrorist Conspiracy from Hell), si esibisce in uno spettacolo sulle note del black metal.

Blood Shower di Thais Di Marco – regista di arti performative queer e decoloniale – è un’opera performativa che cerca di conferire un’accezione artistica alle proteste che vengono criminalizzate ed emarginate nelle strade di tutto il mondo. Soprattutto quelle degli indigeni della foresta amazzonica, che il presidente del Brasile Jair Bolsonaro ha annunciato più volte di ambire a trasferire altrove, nascondendosi dietro il pretesto della cosiddetta necessità di civilizzare popolazioni rimaste indietro, escluse dalla spirale del progresso, strappandole di fatto a un ecosistema che loro contribuiscono a mantenere e a preservare.

Chiara Bersani, photo by Lorenza Daverio

Le donne, spesso, subiscono la stessa sorte. I movimenti di emancipazione attuali tentano di passare il concetto che il femminismo è vittima di un atteggiamento maschile e predatorio il quale considera oggetti ciò che lo circonda e su cui mette le mani: animali, natura, paesaggi inclusi. Ecco perché, in occasione della Feminist School tenuta da Mihaela Drăgan, Sara Marchesi, Muna Mussie in dialogo con Zasha Colah e Chiara Bersani, si presenta un testo della fine del Settecento: Il femminismo o la morte di Françoise d’Eaubonne, tradotto per la prima volta in Italia e edito da Prospeto Editore.

Anticipando la scena odierna di circa due secoli, l’attivista francese scrisse che la struttura patriarcale rappresentava il denominatore comune dell’oppressione delle donne e dello sfruttamento del pianeta. Coniò per la prima volta il termine “ecofemminismo”. Non esiste dunque riferimento ai nuovi ruoli che le donne ricoprono sul lavoro, in famiglia, come cittadine senza un parallelo discorso etico. Tutte le categorie di cui è composto il mondo in cui viviamo devono partecipare alla lenta, graduale, inesorabile metamorfosi, inclusa la moda. È una questione di vera e propria sopravvivenza, come indicava Françoise d’Eaubonne.

Stina Fors, A Mouthful of tongues, photo by Franzi Kreis

 

Anche Miu miu si muove in questo senso, commissionando Women’s tale, una serie di cortometraggi diretti da registe di fama internazionale. Il mondo del lusso e dell’immagine non può evitare di domandarsi in quale modo ha contribuito a indebolire le donne imponendo criteri estetici irrealistici, il cosiddetto “mito della bellezza” di cui parla Naomi Wolf. Per raggiungere la perfezione fisica perpetrata da modelle, indossatrici e dalle operatrici del sistema erano necessarie vessazioni punitive quali diete, digiuni, estenuanti sessioni di fitness nonché prestazioni lavorative alienanti, che dovevano certificare la sensazione di meritare la posizione guadagnata.

Le storie proposte da Miu miu tentano di mettersi in comunicazione con le donne, da capo: mettono in mostra mondi intimi, immaginari, segreti, nei quali le donne tentano di capire chi sono, come si sentono, cosa vogliono. Occidentali, orientali, provenienti dal chiassoso quartiere della Vucciria di Napoli o da metropoli tunisine, giovani o navigate, a tinte noir, autobiografiche o comiche: sono più di venti. Il ventottesimo cortometraggio verrà presentato in occasione del festival del cinema di Venezia.

courtesy of Miu Miu

Le ultime collezioni del marchio appaiono in qualità di mezzo per una riflessione più ampia sui vestiti, sugli accessori, sul rapporto delle protagoniste con il proprio armadio. La vanità, al giorno d’oggi, è ancora viziata da logiche di potere che tentano di compiacere le aspettative maschili? E cosa c’è di liberatorio in una donna che si piace ed è sicura di sé? Sono interrogativi pregnanti, data l’epoca dominata dal culto di sé dei social network, che la moda cavalca, mostrandosi democratica e accogliente. Ma spesso, purtroppo, non è che un’illusione.

La messicana Lila Avilés descrive la storia di una ragazza di Città del Messico che sogna di diventare un soprano d’opera. Le viene detto che la bocca è grande esattamente il doppio di un occhio: una regola che risponde a una cosmogonia quasi divina, non a caso utilizzata dai chirurghi estetici per persuadere le donne di qualsiasi età a sottoporsi a un ritocco. Così la catalana Carla Simòn indaga il rapporto atavico, delicato e sofferto che corre tra esponenti di generazioni diverse, quel filo che si dispiega dalle nonne alle madri alle figlie. I and the stupid boy è un racconto sugli esordi della sessualità e dei primi sentimenti amorosi nel corpo di un’adolescente tunisina, Nora.

courtesy of Miu Miu

Ecco solo alcuni dei possibili esempi. Tutti questi temi sono direttamente connessi alla moda, cioè agli abiti, che definiscono le fasi, le età, i momenti dell’esistenza di tutte le donne: appuntamenti, feste, provini, colloqui, gravidanze. Le prime feste, i primi amori. Le esperienze elettive femminili sono in perenne dialogo con la moda, la moda le rappresenta. Ecco perché è così importante.

Articolo proveniente da Linkiesta