Quanto può essere difficile difendere l’Europa dalla potenza nucleare più grande del mondo? La risposta sta nelle settemila pagine che secondo l’Economist compongono i nuovi piani difensivi dell’Alleanza Atlantica. Si parla di un ritorno all’assetto che la Nato aveva adottato all’apice della Guerra Fredda, adattandolo al contesto strategico nato dall’invasione russa dell’Ucraina. A differenza degli anni Ottanta, oggi la frontiera da difendere contrappone una comunità Euro-Atlantica complessa, nella quale convivono diverse priorità e culture politiche, e un singolo Paese – la Federazione Russa – che pur avendo subito delle pesanti sconfitte militare tende molto di più all’avventurismo rispetto all’Unione Sovietica.
Un ritorno a una vera pianificazione alleata
Per questo, il summit dei capi di Stato e di governo che inizia oggi – e proseguirà – a Vilnius suggellerà politicamente un processo di riorganizzazione alleata già avviata all’indomani del 24 febbraio 2022. Il Supreme Headquarters Allied Powers Europe (Shape) e l’Alleanza Atlantica in senso lato assumeranno un ruolo più centrale nel pianificare la difesa del continente europeo. Come prima della caduta del Muro di Berlino, gli stati membri dell’Alleanza dovranno dichiarare quali unità saranno assegnate ai piani difensivi elaborati a Mons, il quartier generale di Shape. Shape torna così a essere un vero e proprio quartier generale interalleato, ed è anche previsto che l’Alleanza non solo riorganizzi i propri comandi regionali, ma che abbia più voce in capitolo, almeno politicamente, sull’allocazione della spesa militare. Sapere quale Paese dovrà perseguire quali obiettivi difensivi (ad esempio la protezione delle linee di comunicazione marittima, o la salvaguardia di una particolare regione) imporrà alle capitali di garantire la disponibilità di capacità ben specifiche ed adeguate.
Come già annunciato al summit di Madrid dell’anno scorso, inoltre, la Nato sta effettivamente passando da un approccio di deterrenza per punizione (che vuol dire schierare forze minime e segnalare che una violazione dei confini internazionali sarebbe stata punita) alla deterrenza per negazione, ovvero la capacità di combattere fin da subito una guerra difensiva su larga scala ed evitare che un solo metro del territorio alleato venga occupato dai russi. Ciò vuol dire anche passare da un’enfasi sulla Very High Readiness Joint Task Force, una unità relativamente piccola il cui dispiegamento serve più come altolà che per una difesa prolungata, alla creazione a una forza di risposta rapida di centomila unità, al quale si possono aggiungere duecentomila unità nel giro di un mese.
Italia a metà del guado
Non si può tuttavia parlare di un completo ritorno alla Guerra Fredda, ed è anzi proprio la parzialità di questo processo di trasformazione che apre diverse questioni politiche, soprattutto per l’Italia. Innanzitutto, oggi la Russia non è l’unica minaccia alla sicurezza europea. La percezione dei pericoli è frammentata: fra le tensioni nell’Indo-Pacifico e il caos nel Mediterraneo allargato, i decisori politici (ma anche istituzioni, partiti politici e constituencies elettorali) danno priorità alla difesa contro rivali diversi. Ciò è specialmente vero per l’Italia, la cui scarsa coesione interna ed esposizione geopolitica a est come a sud rendono difficile definire delle priorità diplomatiche e militari.
Anche per questo, Roma si trova in una situazione complessa: da un lato, c’è una pressione transatlantica a guardare a est; dall’altro, è evidente che l’Italia non può disinteressarsi al sud. Il risultato è che l’Italia ha difficoltà a posizionarsi proattivamente su temi rilevanti anche per il resto dell’Alleanza e accumulare capitale politico utile. Come ha scritto Alessandro Marrone sul sito dello Iai, l’Italia non può permettersi di ignorare le priorità dell’Alleanza (visto anche l’impatto più o meno diretto che esse hanno sull’interesse nazionale italiano) e poi pretendere che la Nato ci venga in soccorso nel Mediterraneo allargato.
La combinazione di risorse limitate e scarsa capacità politica da parte dell’Italia non può che portare a un ridimensionamento dell’impegno al sud. Le conseguenze di questo processo sono forse già state valutate da Guido Crosetto introducendo una valutazione delle missioni internazionali in corso, ma a livello politico sembra per ora prevalere un senso di ansia diffuso rispetto l’abbandono presunto del “fronte sud” da parte della Nato. Al governo Meloni, come al precedente esecutivo Draghi, sembra mancare il coraggio per allocare mezzi e risorse adeguate all’analisi che viene fatta a Roma sui pericoli di questo decennio.
Parole e fatti
A tutto questo si aggiunge un ragionamento molto materialista. Roma poteva forse, faticosamente, giocare un ruolo di primo piano nelle missioni di stabilizzazione. Per avere un ruolo nella difesa collettiva a est e non fare mero atto di presenza, tuttavia, servirà fare i conti con gli scarsi numeri della Difesa. Non sono solo le forze italiane a essere limitate: rispetto alla Guerra Fredda, tutte le forze armate europee si ritroveranno a dover coprire un fronte potenziale molto lungo e con ben poche unità. Questa tendenza è generale: basti pensare che il teatro di guerra ucraino vede oggi schierati circa un milione-un milione e mezzo di soldati su entrambi i lati, meno della metà di quelli impiegati negli stessi territori durante la Seconda Guerra Mondiale.
Se poche unità devono coprire un territorio vasto, allora è necessario acquisire capacità di manovra e ingaggio a lungo raggio (artiglieria, elicotteri da esplorazione, mezzi corazzati e blindati, missili da crociera) adatti a guerre terrestri ad alta intensità con avversari “di livello”, e non solo a missioni di stabilizzazione e anti-insurrezione. Alcune di queste sono nell’arsenale italiano, altre – ad esempio carri armati moderni – ancora scarseggiano.
Il contributo dato oggi dall’Italia con la propria presenza militare in Romania, Bulgaria, Slovacchia, nei Baltici e in Ungheria è anche possibile perché, a differenza ad esempio dei tedeschi, Roma si è sempre sentita in dovere di mantenere una certa capacità di proiettare le proprie forze nel vicinato, soprattutto Mediterraneo allargato. Questo non sarà però sufficiente per un nuovo concetto Nato che si basa sul principio di deterrenza per negazione: un conflitto si evita solo nel momento in cui si è effettivamente pronti a difendersi a lungo e vincere.
Tutto ciò suggerisce una riflessione da parte di tutta la classe politica italiana sul tipo di sistema di sicurezza che si sta affermando sul continente europeo, e del ruolo che l’Italia può avere nella difesa collettiva. Ignorare il problema non sarà più possibile, pena una totale perdita di credibilità internazionale e l’esposizione a rischi sistemici. Non basta la promessa di fare di più sulla cooperazione di difesa in seno all’Unione europea e di raggiungere il due per cento del Pil in spese di Difesa entro la fine del decennio.
Ora che la guerra è tornata in Europa sarà necessario essere concreti in termini capacitivi. Prosaicamente: Quanti carri armati possiamo impegnare a Est? Quante corvette sono necessarie per mantenere la sicurezza nel Mediterraneo? Per avere voce in capitolo, a Bruxelles come a Mons, dobbiamo dare un contributo adeguato al nostro peso economico e politico e avere le idee chiare sugli strumenti necessari per raggiungere le priorità che ci siamo posti come membro della famiglia Euro-Atlantica.
Articolo proveniente da Linkiesta