Di ritorno da una settimana di intense frequentazioni del Tube londinese, l’altro ieri ho letto delle manifestazioni di giubilo per l’apertura di due stazioni della linea 4 della Metro di Milano, e le ho definite quantomeno eccessive – per la precisione ho detto “grottesche” – in un innocente tweet. Le reazioni al post – in alcuni casi più che grottesche – mi hanno suggerito la parola della settimana: “ambizione”.
Vediamo intanto di che cosa stiamo parlando, e chiedo scusa se la ricostruzione conterrà qualche imprecisione. Gli studi per una nuova linea della Metro di Milano cominciano verso la fine degli anni ’90 del XX secolo. L’istruttoria del progetto si completa nel 2005, ma i primi finanziamenti saltano a seguito di modifiche degli assetti societari e proprietari della linea. Nel 2008 si avviano nell’area le prime indagini archeologiche preliminari. Nel 2010 viene approvato un primo finanziamento dell’opera, e nel 2011 si assegna un primo appalto. Nel 2012 cominciano i lavori con la demolizione del parcheggio di Linate, la bonifica del territorio con dissotterramento di residuati bellici e nuove indagini archeologiche, modifiche della viabilità, taglio o trapianto di alcuni alberi.
Nel frattempo nascono varie contese tra le ditte vincitrici e il Comune, si approntano diverse modifiche progettuali, alcune fermate vengono sacrificate e altre progettate con l’obiettivo di realizzarle per l’Expo 2015 (che poi sarà raggiunta solo con navette provvisorie). Una prima inaugurazione della linea viene annunciata per il 2017, poi slitta al 2018, successivamente è riprogrammata per il 2022, perché intanto è arrivata la pandemia e ci sono ulteriori ritrovamenti archeologici. Così si arriva ad una prima apertura nel novembre scorso e all’inaugurazione in pompa magna di lunedì scorso. Una saga tren-ten-na-le, che si concluderà – si spera – a fine 2024, se non sopraggiungeranno inondazioni e cavallette, per citare gli amati Blues Brothers.
Sarà che torno or ora da 6 giorni trascorsi ininterrottamente nel Tube, ma trovo grottesca questa esaltazione per 2 (due) nuove fermate della metro di Milano aperte con anni di ritardo. Siamo, onestamente, un paese del cazzo.
— claudiovelardi (@claudiovelardi) July 6, 2023
E ora veniamo a noi. Nell’ampio dibattito seguito al post, mi hanno colpito due argomenti in particolare. Il primo è il sempreverde “e allora”, dove l’originario archetipo Pd viene sostituito dall’“e allora Roma e allora Napoli?”: commenti appropriati come cavoli a merenda, in cui si mettono sullo stesso piano il decoroso stato infrastrutturale e civile di Milano e la disastrosa, comatosa condizione della mobilità, dei trasporti, dei lavori pubblici (e del resto…) nelle altre due maggiori città italiane.
Come se questo argomento bastasse a giustificare il percorso di guerra appena descritto. Non è così, non può essere così. L’unica città italiana “vicina all’Europa” (cit.) dovrebbe darsi benchmark adeguati, non accontentarsi di essere un po’ meglio delle due sfortunate metropoli del centro-sud.
Il secondo argomento è fratello del precedente. “Almeno a Milano le cose si fanno”, ricordano molti milanesi, anche miei cari amici, orgogliosi della propria città, del suo ruolo e delle sue trasformazioni. Pragmatici e concreti come sono (per default li definirei riformisti, se nessuno si offende), se la cavano con quell’”almeno”, che però nella sostanza è una triste ammissione, uno sconsolato ripiegamento, l’abbandono – appunto – di ogni “ambizione”. Come se dicessero: “Di più non si può fare, accontentiamoci di quello che passa il convento”.
Ai miei amici milanesi (e non) vorrei dire che non basta “fare le cose”. Il riformismo come metodo certo procede per piccoli passi, fa sempre i conti con le difficoltà del reale, ma non è appagato dall’arrivare, tantomeno dopo trent’anni. Cambiare le cose, innovare, disegnare il futuro di una città o di una nazione è una sfida continua, una corda perennemente tesa verso il futuro. Il riformismo o è ambizioso e visionario o non è.
L’articolo Milano, la metro e l’esaltazione per le due nuove fermate dopo 30 anni: l’ambizione è riformista proviene da Il Riformista.