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Salario minimo, boomerang sociale

È un coro di no quello che proviene dal mondo della piccola e media impresa all’introduzione del salario minimo in Italia. Ovvio secondo una visione un po’ ideologica di chi continua a identificare il datore di lavoro come il “padrone”; meno per chi, conoscendo la realtà dei fatti, sa bene quanto gli imprenditori siano consapevoli che il proprio destino e quello delle proprie imprese sia ormai indissolubilmente legato alle condizioni di lavoro dei propri collaboratori.

Sul salario minimo, quella combattuta da parte delle opposizioni (con l’esclusione di Italia Viva) è prevalentemente una battaglia ideologica. Chi ogni giorno deve fare i conti con il dovere della concretezza, invece, sta alla sostanza.

E così va letta la posizione tenuta dal mondo dell’artigianato, rappresentato da Cna, Confartigianato e Casartigiani, secondo i quali l’introduzione del salario minimo per legge provocherebbe “il rischio di fuga dalla contrattazione collettiva, la mancata valorizzazione del welfare di bilateralità, la complessità di determinare un salario minimo che includa gli elementi che compongono la retribuzione differita (ferie, permessi, ROL, quota del TFR, welfare, bilateralità) e tenga conto delle differenze tra i contratti riguardanti settori diversi”. Parole espresse in Commissione lavoro alla Camera, in occasione delle audizioni parlamentari dedicate alle proposte di legge sul salario minimo.

Per le imprese artigiane “l’introduzione di un salario minimo legale è improponibile poiché, nel caso in cui fosse inferiore a quello stabilito dai contratti collettivi, ne favorirebbe la disapplicazione e, qualora fosse più alto, si creerebbe uno squilibrio nella negoziazione degli aumenti salariali”. E “in entrambi i casi, il risultato sarebbe un peggioramento delle condizioni dei lavoratori”.

Le tre Confederazioni sottolineano che in Italia “la contrattazione collettiva coinvolge praticamente la totalità dei lavoratori, rendendo superflua l’introduzione di un salario minimo: il numero di lavoratori coperti da contratti supera ampiamente la soglia minima stabilita dalle norme europee”.

Sulla stessa lunghezza d’onda le argomentazioni di Confcommercio. “L’individuazione di un salario minimo orario per legge, slegato da un consolidato sistema di relazioni sindacali, andrebbe a discapito della più diffusa applicazione dei contratti collettivi leader”, è stata la considerazione portata all’attenzione dei deputati della Commissione lavoro. La via, semmai, è quella di promuovere “la crescita dei salari” e dunque “rafforzare la dinamica della produttività” attraverso “incisive misure di riduzione del cuneo fiscale e contributivo e interventi di detassazione degli aumenti contrattuali, oltre alla conferma della detassazione dei premi di risultato”.
A rincarare la dose le parole di Confesercenti, che ha ricordato ai deputati che “negli ultimi 70 anni la contrattazione collettiva è stata in grado di garantire a lavoratori e imprese trattamenti economici in linea con le situazioni di mercato dei singoli settori e coerenti con le qualifiche dei singoli lavoratori e l’andamento della produttività dei diversi comparti”. Una visione forse un troppo ottimistica se analizziamo l’andamento delle retribuzioni negli ultimi anni, ma è un fatto che il problema degli stipendi bassi non si risolva col salario minimo (“Non basta fissare un numero in Gazzetta ufficiale per aumentare i salari”, ha efficacemente detto ieri su queste colonne il segretario della Cisl, Sbarra).

Anche le imprese cooperative la pensano allo stesso modo: “Non è affatto detto che se introducessimo una soglia per legge otterremmo dei risultati – ha ammesso alla Commissione lavoro della Camera Sabina Valentini, Capo servizio sindacale e giuslavoristico di Confcooperative, a nome anche di Legacoop e Agci – perché gli stessi soggetti che oggi sfruttano il lavoro non applicando la contrattazione collettiva leader, non applicherebbero il salario minimo per legge. Abbiamo l’impressione che un salario minimo per legge potrebbe diventare illusorio”. In altre parole, per il mondo delle coop “non è un salario minimo definito per legge che genera trattamenti equi e dignitosi, ma i contratti collettivi”. Auspicano “che l’obbligo di imporre minimi salariali tramite la contrattazione collettiva venga esteso il più possibile”.

In Italia il 97% dei lavoratori ha un contratto collettivo nazionale che stabilisce un minimo orario più alto di 9 euro e una serie di elementi aggiuntivi. I temi da affrontare, numeri e direttiva europea alla mano, appaiono altri: potenziamento della vigilanza sull’applicazione, estensione dei contratti ai settori non coperti, riduzione delle tasse. Quello delle retribuzioni in Italia è un problema molto complesso: la storia, anche recente, insegna che non esistono soluzioni facili e problemi complessi. Chi ha provato ad applicarle, arrivando addirittura a proclamare “l’abolizione della povertà”, non ha fatto una bella fine (politicamente parlando) e ha fatto pagare un conto salatissimo al Paese. Soprattutto a chi percepisce gli stipendi più bassi.

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